Negli anni
della prima giovinezza seguì la famiglia nei trasferimenti dovuti alla
professione del padre, magistrato di carriera: a Nicosia, nel 1886, dove iniziò
gli studi ginnasiali; più tardi, nel 1894, a Catania, dove frequentò il liceo e
si iscrisse alla facoltà di lettere. Dopo due anni, in crisi intellettuale,
interruppe gli studi e si ritirò a Sciacca, dove rimase dal 1898 al 1900,
dedicandosi a letture disordinate e alle prime prove poetiche. Nel 1901,
trasferitosi a Palermo, riprese gli studi universitari, in cui ebbe a maestro
G.A. Cesareo.
Pur non giungendo
mai alla laurea, negli anni palermitani Gerace cominciò a partecipare
attivamente alla vita culturale della città: collaborò, infatti, al quotidiano L'Ora, pubblicò un poemetto, Il fonte
della vita (Palermo
1901), e stabilì fervidi contatti con il mondo intellettuale siciliano, in cui
spiccavano, tra le altre figure di rilievo, M. Rapisardi e G. Gentile,
attraverso il quale ebbe modo di conoscere personalmente B. Croce.
Alla fine
del 1909, la necessità di trovare una sistemazione lo spinse a trasferirsi a
Roma. Qui portò a termine un romanzo a sfondo autobiografico, iniziato nel
1907, La grazia (Napoli 1911), che gli fruttò, ex aequo con L. Siciliani, il premio Rovetta per il biennio
1911-12.
Ambientato
in un paesino della Calabria, segue la vicenda interiore di un giovane, Lorenzo
- in cui facilmente si può riconoscere la fisionomia morale di Gerace - in
preda a una profonda crisi di valori che lo porta a interrogarsi con
inquietudine sulla vita e su Dio. Questa riflessione spinge il protagonista ad
abbandonare i vizi giovanili per convertirsi a una disciplina di umiltà che,
una volta trasferitosi a Roma, intende testimoniare in un romanzo. Come ebbe a
notare G.A. Borgese (La grazia, in La vita e il
libro, terza
serie, Bologna 1928, pp. 157-163), tra i più attenti critici di Gerace, l'opera,
pur mostrando alcuni lati deboli (assenza di una solida tecnica narrativa,
mancanza di unità psicologica del personaggio), rivelava comunque l'energia
rappresentativa di "uno che ha letto molte volte l'Inferno dantesco, e ha letto poco Balzac e Flaubert" (p.
160).
Questo primo
successo letterario, tuttavia, non comportò un significativo miglioramento
della situazione economica di Gerace, il quale, nel 1912, accettò l'impiego
propostogli da Croce presso la Biblioteca della Società napoletana di storia
patria. Trasferitosi a Napoli, l'assidua frequentazione con Croce e
l'intensificarsi degli studi filosofici, determinarono una sua iniziale,
decisa, adesione all'idealismo seguita da un altrettanto radicale distacco
sancito dal saggio Storia ideale dell'Io, scritto nel 1913 ma pubblicato più
tardi, con altre prose critiche e filosofiche, nella raccolta La tradizione e la moderna barbarie (Foligno 1927).
Alla morte
del padre, nel 1915, e anche per il deteriorarsi dei rapporti con Croce,
rientrò a Roma per assistere la madre. Ma non vi rimase a lungo, in quanto
l'anno dopo fu richiamato alle armi e, dopo aver seguito il corso accelerato
per allievi ufficiali a Torino, venne destinato in servizio territoriale a
Venezia con il grado di sottotenente. Interventista acceso, ottenne
successivamente di essere inviato alla milizia attiva nel 4° e 5° reggimento di
artiglieria a Fortezza, in Alto Adige, quindi, per l'aggravarsi di una malattia
intestinale che lo aveva tormentato fin dall'adolescenza, fu trasferito presso
il forte di Mestre.
L'esperienza
bellica lo aiutò a uscire dalla sterile irresolutezza generata dalla sua
inquietudine intellettuale, inducendolo a chiarire a se stesso le ragioni di un
suo totale impegno nell'attività poetica. Ottenuto il congedo, tornò a Roma,
quindi, dal 1919, insegnò italiano a Bari nel locale istituto tecnico finché,
nel 1921, la legge Croce - che impediva l'esercizio dell'insegnamento a chi non
possedesse un titolo accademico - lo costrinse a rientrare a Roma.
Nel 1926
arrivò anche un importante riconoscimento all'attività poetica d Gerace, con il
premio di poesia dell'Accademia Mondadori, cui aveva partecipato su
sollecitazione di Borgese, pur fra molti contrasti e incomprensioni che
ritardarono la pubblicazione della raccolta che aveva ottenuto il premio, La fontana nella foresta (Milano 1928).
Questa
silloge si articola in cinque sezioni che scandiscono una sorta di percorso
iniziatico: Eros, la prima, è di ispirazione amorosa
e vitalistica; Psiche, in cui prendono il sopravvento
malinconia e delusione, contiene il poemetto eponimo della raccolta, La fontana nella foresta, narrazione di un episodio della
fanciullezza di Gerace, in cui la scoperta del complesso edipico viene
sublimata attraverso la rievocazione poetica; Dionisos, include uno dei componimenti più
intensi, L'ospite ignoto, che mette in scena una personalità scissa, animata
da violente passioni; Thanatos, è caratterizzata dai toni cupi
della morte e del nulla, in piena evidenza nel componimento finale della
sezione, L'indivisibile compagno; Urania, segna il definitivo approdo a
un'atmosfera di contemplazione e di serenità raggiunta attraverso l'arte e il
rapporto con il divino, inteso in chiave panteistica. Chiude il libro Negli orti di Academo, un gruppo di epigrammi satirici in
cui Gerace difende, con piglio bonariamente ironico, il suo modo antimoderno di
fare poesia, anticipando per molti aspetti la polemica antiermetica di G.
Noventa. Per il resto la sua ispirazione, anche nel postumo Variazioni musicali (a cura di G. Gerace, Milano 1934) è fortemente
determinata dal suo ricollegarsi ai classici, sia greco-latini (Anacreonte,
Catullo, Virgilio) sia italiani (Dante, Petrarca, Leopardi, Carducci,
D'Annunzio), con talune incursioni nella poesia romantica inglese (P.B.
Shelley, J. Keats); il più scoperto esercizio di imitazione, come pure le
movenze musicali ispirate alla poesia del passato, vengono rivissute in chiave
personale e, per dirla con U. Saba, "onesta", ma inevitabilmente
incorrono nella retorica, laddove la radice dell'ispirazione sia meno
intensamente rielaborata. Nonostante il successo ottenuto al concorso,
l'attenzione alla poesia di Gerace, giudicata troppo tradizionale e démodée, svanì presto. L'amarezza che ne conseguì contribuì
probabilmente all'aggravarsi dell'ulcera duodenale di cui soffriva da tempo.
Sottoposto a
intervento chirurgico, morì a Roma, il 18 maggio 1930. Il 20 agosto 1923 aveva
sposato Giulia Becciani, da cui ebbe due figli, Giovan Battista e Leonetta.
A Vincenzo
Gerace è dedicato l’istituto comprensivo Classico-Artistico di Cittanova (RC),
rinomato per la sua importanza storico-culturale e per l’amore per il sapere
che quotidianamente viene trasmesso agli studenti, fieri di possedere amor
proprio.
Bibliografia:
Enciclopedia Treccani
Ricerca a cura di
Monica Crimeni, IV A
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