Un passo
indietro: i piani di Spartaco
Dopo la
ribellione, il progetto originario di Spartaco era quello di valicare le Alpi in
modo che ognuno degli schiavi si mettesse in salvo; così non avvenne poiché un
ingente gruppo di schiavi, guidati dal gladiatore Crixus, si abbandonò a
saccheggi e violenze. Dopo diverse battaglie contro le truppe romane, Spartaco
decise di discendere lungo la penisola, con l’obbiettivo di raggiungere la
Sicilia con le navi che avrebbero dovuto mettere a disposizione i pirati
cilici; ma i Cilici non si presentarono e i Romani riuscirono a “intrappolare”
l’esercito servile presso la punta della Calabria. L’unica possibilità che si
prospettò per Spartaco fu di forzare il blocco delle legioni e risalire verso
nord. Lo scontro avvenne sul dossone della Melia, in Aspromonte. Durante la sua risalita,
Spartaco sostò a lungo ai piani di Zervò, aiutato dalle popolazioni montane;
contemporaneamente i Mamertini di località Mella (presso l’odierna Oppido) lo
rifornirono di cavalli. La sosta durò abbastanza a lungo da esaurire ogni
probabilità di ulteriore aiuto da parte delle popolazioni locali e da concedere
ai Romani il tempo necessario per organizzare una spedizione militare contro
Spartaco e creare una rete di fortificazioni nel luogo dove sarebbe avvenuto lo
scontro.
Il comando delle legioni, formate quasi esclusivamente da Lucani, venne
affidato a Marco Licinio Crasso, che si ipotizza avesse anche interessi
personali nel bloccare l’esercito servile, in quanto ricco possidente di decine
di migliaia di ettari di latifondo e migliaia di schiavi coltivatori
nell’attuale Piana di Gioia Tauro, in parte già disboscata e mandata in coltura
dopo la costruzione della Via Annia Popilia (132 a.C.).
Archeologia
e territorio: le fortificazioni
Il dossone della
Melìa costituisce il punto più stretto dell’Aspromonte, dal quale è possibile avere
una visuale completa del versante tirrenico e di quello ionico: fu quello il
luogo scelto per bloccare definitivamente Spartaco, che risaliva da Sud.
Agli alleati Locresi viene affidato il
presidio del versante orientale presso la fortificazione di Bracatorta,
già utilizzata dalla polis in epoca magnogreca, in quanto si trovava accanto
alla principale mulattiera che collegava Locri alla subcolonia Medma; tale
presidio fu ulteriormente rafforzato mediante lo scavo, a ovest della
fortificazione, di tre avvallamenti artificiali (i cosiddetti vadunati)
ancora oggi osservabili sotto la faggeta dii Coculedi. Tali avvallamenti
paralleli, muniti di pali aguzzi sul loro fondo, avevano la duplice funzione di
proteggere il fronte locrese e di costringere i servili a dirigersi verso la
grande fossa di Mortaro, anch’essa munita di pali, che avrebbe impedito
la fuga verso nord-est; tale fossa era circondata da un muro a secco dotato di rampe
di accesso ancora distinguibili. Questa struttura difensiva fu rafforzata da un
ulteriore palizzata. A sud di Mortaro si estende un vasto piano di felci
denominato Tonnara / Tinnaria, dove sicuramente Crasso aveva intenzione
di spingere i servili verso la “mattanza”: la fossa sarebbe così diventata una
camera mortuaria.
Il fatto che potesse esistere una possibilità
di fuga verso il versante ionico anche più a sud, poco dopo la timpa della
donna, per mezzo della mulattiera che attraversa l’attuale Antonimina,
induce a pensare che anche in questa zona potessero trovarsi importanti presidi
militari, dei quali ancora non è stata rinvenuta alcuna traccia archeologica.
Sul versante
occidentale furono, però, costruite le maggiori fortificazioni: in località
Palazzo emergono i resti di una caserma con funzione di controllo in caso di
eventuali sortite dei ribelli da Cucurucà attraverso le scarpate del
torrente Lo Stretto. L’accesso alla fortezza venne bloccato da un
triplice avvallamento, continuazione di quello di Bracatorta, probabilmente
munito di ponti levatoi verso i quali si dirigeva una strada in basolato ancora
visibile, la quale doveva costituire uno dei diverticoli della Via Grande
citata in molti documenti di XVII e XVIII secolo.
In località Marco
è stata rinvenuta una struttura identificata come forno di fusione del piombo
con il quale venivano realizzati i proiettili per i frombolieri, data la
presenza di letargirio (il vapore rappreso del piombo in fusione) sulle pareti
interne; altre stutture simili sono state rinvenute a Mortaru e a Padduni,
nonché presso la faggeta di santu Trabissu.
Il versante
occidentale risultava essere quello più protetto e presidiato non solo per le fortificazioni sul piano della Melìa, ma
anche per quanto concerne i presidi posti su tutti i sentieri che dalla dorsale
conducevano all’odierna Piana di Gioia Tauro (e ciò la dice lunga sugli
interessi che i Romani avevano nella zona), come quelli tra i fiumi Serra
e Marro e presso il fiume Vacale; i sentieri di collegamento
furono bloccati sia su piano Melìa presso le discese da Santu
Trabissu, Passo del Mercante e Scarpa della Pietra, sia ai
punti di sbocco in pianura presso Campiccciolo, Santa Maria della Catena
(posta sull’attuale via del cimitero di Cittanova, che costituiva il punto
d’arrivo della mulattiera che partiva dal passo del Mercante) e Scroforio.
Spesso sono anche i toponimi a essere d’aiuto nell’ambito delle ricerche
effettuate sul territorio, come nel caso di Scroforio, che si rifà a Scrofa,
luogotenente di M. Licinio Crasso durante la guerra servile, o del nome Marco,
che senza dubbio si riferisce al celebre comandante; ma anche toponimi come Palazzo
richiamano alla mente la presenza di antiche fortificazioni, rimaste nella
memoria collettiva degli abitanti di quei luoghi. Per esempio il fatto che
nella Piana di Gioia Tauro ricorrano numerose località denominate Torre
o Torretta, che si succedono sempre più o meno alla stessa distanza,
seguendo sempre la stessa direzione, verso le campagne di Crasso
(odierno Grasso) e Benevento nella bassa pianura di Polistena,
costituisce un’ulteriore traccia di una rete di torri di avvistamento.
Lo scontro
in Aspromonte
Spartaco e il suo
esercito vennero imbottigliati sul piano di Melìa, senza alcuna
possibilità di ricevere aiuto, in quanto la loro alleata Mamerto era
stata distrutta da Scrofa per ritorsione ai Mamertini che avevano dato pieno
appoggio ai ribelli. Lo scontro avvenne in inverno, e sulla dorsale nevicava.
Nonostante gli
attacchi incrociati di arcieri e frombolieri, i servili tentarono di colmare la
fossa di Mortaro, e ci riuscirono nella parte orientale, dove i lavori
non erano stati completati a causa della presenza di rocce, riempiendola con
cadaveri di uomini e animali, con tronchi d’albero e terra, in modo da
consentire a Spartaco e a un terzo dei suoi uomini di attraversarla.
La vicenda si
concluderà, quindi, altrove; ma cosa accadde ai restanti due terzi
dell’esercito di Spartaco? Il nome della località Mortaro sembra
rimandare a un luogo di seppellimento, come indicherebbe la stipe votiva
funeraria ivi rinvenuta, quando, circa settant’anni fa, fu impiantata la
pineta. Probabilmente la vicenda di Melìa si concluse con uno sterminio,
conoscendo la crudeltà di Crasso e le maniere sbrigative dell’esercito romano.
Forse non saremo mai in grado di dirlo con precisione.
Intanto, tra i
faggi, sembra quasi rivedere i soldati di Spartaco muoversi con cautela,
affidare le loro speranze di libertà anche alle nostre montagne...
Bibliografia
• Domenico Raso, Zomaro – La montagna dei
sette popoli, Laruffa Editore;
•
Domenico Raso, Tinnaria,
antiche opere militari sullo Zomaro, in “Calabria sconosciuta” n. 37;
•
Rossella Agostino e Maria
Maddalena Sica, Archeologia e paesaggi dal Porthmòs alla Sila silva
Tauricana, Laruffa Editore;
•
Plutarco, Vite parallele.
Ricerca
a cura di Nicoletta Anastasia Deni, IV A
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