lunedì 8 febbraio 2016

La solitudine del Sud: motivi per andare, motivi per restare.

Guardavo fuori dal finestrino: da quando ero bambina e salivo sul treno con la mia famiglia, amavo stare seduta dal lato del finestrino per guardare i paesaggi davanti ai quali passavamo, prima di lasciarceli alle spalle. Ma, stranamente, stavolta non guardavo veramente gli alberi, le case e le colline: la mia mente vagava lontano e rivedeva ancora quella scena: il proprietario della fabbrica che ci voltava le spalle, dopo aver annunciato alla platea di operai seduti davanti a lui la chiusura della fabbrica, “Mi dispiace”, aveva concluso, e ognuno era tornato a casa con il peso della notizia da annunciare ai familiari. Un mese di preavviso prima della chiusura definitiva, giusto il tempo di provare a cercare un altro lavoro, lavoro che non ho trovato. Ho pensato che l’unica cosa che avrei potuto fare sarebbe stata partire. Di nuovo. Eppure ero arrivata a Milano piena di speranze: con una laurea in ingegneria e un master in informatica in tasca, mi aspettavo di trovare chissà quale impiego, ma mi ero accontentata ugualmente, quando si era prospettata l’idea di lavorare come operaia, e ora mi ritrovavo come se avessi sprecato cinque anni della mia vita. Non mi restava che tornare a casa, dove, in fondo, non c’è mai stato nessuno che avesse visto di buon occhio la mia partenza: mia madre e mio padre perchè non contenti dell’idea di non vedermi per mesi; mia sorella Caterina perchè è estremamente legata alla sua terra e vorrebbe che non partisse nessuno “per aiutare a crescere la nostro Sud”, come diceva sempre.
Dalla stazione ero andata a piedi fino a casa di mia sorella: vedermi doveva essere una sorpresa. «Chi è? », disse la voce dal citofono dopo che suonai, « Caterina, sono io, Maria». Sembrò che la cornetta del citofono fosse caduta dalle sue mani, poi iniziai a sentire i passi di una corsa veloce dalle scale e, prima ancora che mi rendessi conto che aveva aperto la porta, vidi Caterina che correva ad abbracciarmi: «Mi hai fatto una bellissima sorpresa! Come stai? », «Bene», le risposi, «anche se non si tratta di una sorpresa piacevole... Mi dispiace, non sapevo dove andare: mi hanno licenziata».                                                                                                                                                                          La sua felicità sembrò sparire per un istante, poi disse: «Non ti preoccupare, risolveremo tutto... E poi, ora sei a casa tua; vedrai come saranno contenti mamma e papà».
I miei familiari erano comprensivi e felici del mio ritorno, ma io ancora non me ne capacitavo: ero andata via per lavorare, per sfruttare la mia laurea, che temevo rimanesse inutilizzata e sprecata nel mio paese di un Sud dimenticato ed ero andata fino a Milano... per fare l’operaia, senza pensare neanche per un istante che non sarebbe stato necessario andare all’estremità opposta dell’ Italia, lontana dalla mia famiglia, per essere impiegata nell’azienda di qualcuno. Prima che decidessi definitivamente di partire, mia sorella mi aveva portato per settimane annunci di richieste di commesse, camerieri, baby-sitter, ma io non l’avevo ascoltata. Vedendomi particolarmente pensierosa, qualche sera dopo il mio arrivo, Caterina è venuta a sedersi vicino a me: «Anche io ho perso il lavoro, tre anni fa, anche se non ho voluto dirtelo per farti credere che avresti potuto avere anche qui delle buone possibilità. Ma io e alcuni miei amici il lavoro lo abbiamo inventato, anche se al momento siamo tutti volontari. Abbiamo costituito un’associazione per rendere fruibile il parco archeologico del paese: il nostro compenso è costituito dalle offerte dei turisti. Vuoi venire con noi domani?». Così ho ricominciato a lavorare, ma non ero del tutto felice di ciò: davo il mio contributo al parco con entusiasmo sempre più decrescente. Dopo le giornate di pioggia in cui non potevamo lavorare, iniziava la pulizia, che era il compito più faticoso. Vedevo i miei studi sprecarsi a ogni erbaccia che staccavo. Poi, una sera, avevo acceso il computer e avevo trovato un’e-mail sul mio indirizzo di posta elettronica: “Oggetto: proposta lavorativa”. Non potevo crederci: i miei vicini di casa di Milano non si erano dimenticati di me e, appena avevano letto l’annuncio “Cercasi ingegnere qualificato” fatto da un’impresa locale, mi avevano informata. Il cuore mi si riempì di gioia e corsi subito a informare Caterina, ma fu come se la notizia avesse trasformato il suo atteggiamento nei miei confronti da solare in freddo. Dopo due giorni di gelido silenzio tra noi due, di domande che le facevo e si perdevano nell’aria, come se non avessero mai atteso una risposta, mi presi di coraggio e le dissi: «Cosa c’è, Caterina?»                              
«Perchè me lo chiedi, non lo capisci da sola? »                                        
«Te lo chiedo perchè questa situazione non è sostenibile: non puoi non rivolgermi la parola solo perchè ho deciso di partire ». 
«Non ti sto trattenendo... E che bisogno hai di sentire la mia voce quando non mi vedrai per mesi?». 
Gli occhi le si fecero lucidi e vidi due lacrime bagnarle le gote. La abbracciai per consolarla, dicendole che andavo via per lavorare, non per stare lontano da lei, ma  si spostò e iniziò a parlare: «Sei stata cinque anni via da qua per lavorare in una fabbrica, ma non ti ha dato nessun peso; ora che hai trovato un’occupazione nella tua terra, vuoi andare via dopo soli due mesi perchè non è il lavoro che desideravi? Sei tornata solo perchè non sapevi dove andare e il “lavoro” è solamente una scusa per scappare di nuovo: non ti importa che qua ci sia la tua famiglia, che questa sia la tua terra: la tua unica aspirazione è andare via! ».    
«Ma ho la possibilità di lavorare come ingegnere», la interruppi. Forse non avrei dovuto dire quelle parole, ma continuai a parlare: «E lo sai anche tu che al Nord avrei più possibilità.» Caterina uscì di casa sbattendo la porta.
L’indomani non andai al parco, ma lei tornò più triste che prima di uscire. «Come è andata la giornata di lavoro?». Provai ad aprire la discussione, ma lei mi rispose con un’altra domanda:«Cosa intendi con possibilità: possibilità di lavoro, economiche? Per me la possibilità che offre la vita è rendere migliore il luogo in cui vivo, nella legalità. Dovresti andare a vedere cosa hanno fatto al parco, ma forse non ti interessa». 
Nel pomeriggio andai al parco archeologico: i monumanti imbrattati e per terra immondizia; cercai Caterina, intenta a lavare scritte da una colonna. «Perchè? », le domandai, «Perchè c’è gente come te, che non ama la sua terra». Non ebbi la forza di risponderle: quelle parole mi ferirono profondamente. Voltai le spalle e me ne andai. Continuai a pensare a quella frase per tutto il pomeriggio e, quando fui sicura che tutti i volontari se ne fossero andati, tornai al parco. Era tarda serata, ma nessun cancello mi impediva di entrare, nessuna telecamera mi avrebbe vista: “Non ci sono fondi; a dire la verità noon ci sono mai fondi per la cultura” ripeteva spesso Caterina. Anche per questo qualcuno aveva potuto fare scempio, e vedendo quello che era rimasto da fare e da ripulire dopo una giornata di lavoro, mi veniva da piangere. “Come si può distruggere un patrimonio così importante”, pensavo, “e come si può non amarlo? Come ho potuto pensare che un territorio che ospita queste antichità non possa darmi possibilità di vivere bene?”.
Caterina mi aspettava sveglia a casa: era preocupata che non fossi tornata per cena e fu per lei un sollievo sentirmi aprire la porta. 
«Scusa», esordii, «ho sbagliato a dire che il nord mi può dare più possibilità». 
«Maria, mi hai fatto preoccupare; non volevo dire quelle cose, ma...». 
«Avevi ragione», la interruppi, «Se vado via contribuisco al degrado e all’ impoverimento, se vado via dimostro di non amare abbastanza la mia terra». 
«Maria, tu qui avrai sempre la tua famiglia a sostenerti e non hai bisogno di partire per trovare un lavoro: prima che tu dicessi di non avere possibilità qui, stavo per darti questo».
Caterina mi porse un foglietto bianco con una scritta nera: “Cercasi ingegnere qualificato”, e un numero di telefono.
Sono passati cinque anni, sono un ingegnere con un mio ufficio, ho una famiglia, un figlio e, nel weekend faccio la volontaria con mia sorella. “Andare via o restare?” è stato il bivio davanti al quale mi ha posto la vita e ho deciso di restare, di non lasciare il mio Sud da solo.


Dichiaro che l’opera è frutto esclusivo del mio ingegno.                                                        Nicoletta Anastasia Deni
I A Liceo Classico “Vincenzo Gerace”, Cittanova

0 commenti:

Posta un commento