Quale personalità emerge da questa breve raccolta di poesie? E’ difficile rispondere con precisione. Se da un lato alcune sembrano piene di rabbia, altre cantano uno sconfinato amore. Come se, all’apparenza, esse fossero state pensate da animi diversi. Eppure esiste tra di loro un legame: sono tutte richieste di aiuto, testimonianze di una sofferenza interiore, il cui unico rimedio è la fede perché abdicare alla fede/rende più smarriti-/meglio un’illusione/che l’assoluto buio (1551). Ma è senza dubbio strano che nella stessa strofa la Dickinson abbia prima definito la fede quasi come un’ancora di salvezza cui aggrapparsi e poi come un’illusione. Se in alcuni componimenti emergono chiaramente l’amore e la ricerca di Dio, come nel 1403 (Mio Creatore – lascia che sia -/ innamorata di Te sempre -/ E avvicinandomi /fa che in me cresca la mancanza-), in altri sembra che la poetessa si senta respinta da Dio, come nel 49, e, per questo, esprima quasi sentimenti di rabbia (Ma Tu ladro! Banchiere – Padre! /Mi lasci povera di nuovo!). La sua definizione di fede come illusione non può, dunque, che scaturire da questa incessante ricerca di Dio in cui si alternano l’amore e la delusione per non sentirsi ricambiata, per non sentire la reale presenza del Padre accanto a lei, percependo come inesaudite le sue richieste di aiuto, perché giunsero fantasmi, e non Tu (1661); e si evince ciò dal fatto che lei stessa, nel componimento 437, scrive che gli uomini lanciano discorsi/ per mezzo d’essa (la preghiera, n.d.r.) – nell’orecchio di Dio -/Sempre che se ne accorga.
E, nei versi della Dickinson, stessa sorte della fede tocca anche al Paradiso: che il paradiso sia là sopra/abbiamo la certezza (1205) sono delle parole apparentemente in contrasto con la lirica 370: Il paradiso è a tal punto nella mente/che se anche lei sparisse-/nessun architetto il suo luogo/potrebbe più tracciare, in quanto esso è identico - alla nostra idea. Ma potremmo definire quella che per Emily Dickinson è l’idea di Paradiso attraverso il pensiero di Platone, per cui ciò che si percepisce con il ragionamento è più importante dei dati tangibili: seguendo il filosofo greco esso sarebbe, dunque, l’idea perfetta di cui il nostro mondo non è che un’ombra. Forse, da questo punto di vista, quei versi ci apparirebbero meno contraddittori. Del resto, l’ultima definizione della poetessa dovrebbe essere quella più concreta anche secondo il ragionamento di Cartesio, perché non siamo in grado di pensare nulla che non esista veramente.
Nonostante siano trascorsi quasi due secoli, i suoi versi sono ancora in grado di farci riflettere, che abbia scritto con ironia (1111) o in forma di preghiera; che abbia trasmesso rabbia o, al contrario, accettazione di ogni evento della vita (1534, Imparerò a convivere con la miseria/ poiché è Tuo dono); che parlasse soltanto di se stessa o scrivesse dei suoi tormenti attraverso quelli di tutta l’umanità.
Nicoletta Anastasia Deni
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