Un divano occupato da orsacchiotti di pezza, tra i quali si
siede il professore, tenendo qualche altro peluche in braccio: in fondo basta
questa singola scena della rappresentazione di Pensaci, Giacomino, di Luigi Pirandello, per comprendere non solo
la figura del protagonista, ma anche la commedia in se stessa. Quegli orsetti
trasmettono l’idea del gioco (o del carattere
giocoso, volendo utilizzare la definizione della poetica callimachea
coniata da Bruno Snell), che, a ben vedere, è il motore di tutta la vicenda. Il
professore Augusto Toti, infatti, pur essendo avanti con gli anni, decide di
sposarsi per un gioco ai danni dello
Stato: sente che non gli resterà molto da vivere e che la sua pensione, erogata
per così breve tempo, non potrà ricompensare i suoi trentaquattro anni di
servizio. Da qui l’idea, che somiglia a un divertente scherzo, di scegliere
addirittura una donna giovane, in modo che lo Stato paghi almeno per cinquant’anni dopo che muoio! E lo scherzo
è duplice, trattandosi di un matrimonio fittizio: il professore è ben deciso ad
accogliere in casa propria una donna così giovane soltanto come figliola. Ma, nella duplicità della
beffa, dovremmo piuttosto leggere il confine tra il giocoso e il serio,
particolarmente labile nella commedia di Pirandello, tant’è che il protagonista
lo oltrepassa più volte. Il professore, infatti, non sposa una ragazza qualsiasi, ma una giovane, Lillina, che ha
realmente bisogno di una famiglia che la accolga, essendo stata allontanata dai
genitori naturali a causa della sua gravidanza; e, insieme a lei, accoglie il
bambino (cui appartengono i già citati peluche…) e il padre di quest’ultimo,
quel Giacomino presente nel titolo. Fin qui quello che vediamo sulla scena; ma
a tutto questo si contrappone il fuori-scena, fatto delle chiacchiere, dei
pettegolezzi, dei giudizi insistenti e fuorvianti, che finiscono
inevitabilmente per influenzare quello che avviene sulla scena, avanzando verso
di essa in maniera tanto prepotente da invaderla per mezzo della scenografia
(costituita da ingombranti volti pronti a giudicare, che sbirciano da dietro le
pareti degli spazi chiusi in cui è ambientata la vicenda). Alcuni personaggi
sono ambasciatori di tali dicerie, come il preside, che si reca a casa del
professore per convincerlo a lasciare l’impiego, in quanto la sua presenza
danneggia l’istituzione scolastica, o la madre di Lillina, che, colpendosi le
gote con entrambe le mani, declama: Ancora
non ho perso questo divino rossore che ho sulle guance (e in questa frase
potremmo leggere un’eredità della shame culture omerica: ho troppo rossore dei Teucri e delle Troiane lungo peplo, Il. VI,
v. 442). Lo stesso Giacomino rischia di allontanarsi da Lillina, lasciandosi
fuorviare dal moralismo della sorella e di un prelato.
La farsa, dunque, non è il matrimonio, ma è quella inscenata
per mezzo di un moralismo esteriore e falso, indossato come una maschera che
ponga al riparo dalle chiacchiere della gente. Nel gioco del professore,
invece, c’è tutta la sua serietà, tutta la sua capacità di osservare il reale
andando oltre le maschere, che cita espressamente all’inizio della commedia.
Egli, infatti, asserisce di recitare il proprio ruolo di insegnante nello
stesso teatro in cui i ragazzi recitano quello di alunni, deridendolo da dietro
i banchi, ma rispettandolo come persona fuori dalla scuola.
La vita è un gioco di maschere: Pirandello ce l’ha insegnato
diversi decenni fa, ma noi per comodità, per convenzione, per rossore fingiamo (!) di dimenticarcene.
Nicoletta Deni, V A
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